Our bodies, Our Hardwares

by Milena Zanetti

La specie umana ha da sempre una stretta relazione con la tecnologia, tra le due vi è sempre stata una co-appartenenza a partire dall’invenzione della ruota fino alla nascita del web. Solo negli ultimi decenni però, pervasi da un senso di inadeguatezza derivante da un’accelerazione inesorabile dello sviluppo tecnologico, ci siamo accorti della forza con la quale questa può imporre i suoi codici di dominio sui nostri atteggiamenti, sulle nostre relazioni e sulla percezione dei nostri corpi. Gli anni Novanta vedono infatti germinare scoperte scientifiche che segnano la storia al pari di una nuova rivoluzione industriale: la possibilità di unire e mescolare geni come se gli organismi fossero materia da modellare e il superamento dei limiti corporei, della comunicazione e del sapere, hanno violato l’integrità della natura nella sua stessa essenza.

La mia ricerca si infila in questo intervallo di tempo, nella lettura di un’epoca globale che si trova ad affrontare apocalissi climatiche, rivoluzioni farmaceutiche e guerre di brevetti. Norme e strutture organizzative precedenti appaiono ridicolizzate e la percezione di noi stessi, della nostra materia corporea, si ritrova totalmente stravolta. In questo ambiente apparentemente sterile, che ricorda paesaggi cyberpunk apocalittici, sono sorti anche nuovi desideri e nuove strategie di sopravvivenza. Le bio-info tecnologie >1 ci hanno infatti permesso di superare i limiti spaziali, temporali e fisici della carne consentendoci così di ripensare il modello di corpo naturale e il significato di corpo organico. È proprio il corpo e la sua stessa materialità a giocare un ruolo attivo in questo contesto, in quanto capace di figurare tipologie di linguaggi non ancora conosciuti e ripensare le narrazioni di potere.

Nell’ambiente artistico contemporaneo questo desiderio è evidente nelle performance appartenenti al contesto queer e decoloniale attuale, che da sempre cerca di far emergere un attivismo ad impronta femminista, proveniente direttamente dal loro corpo. La forza delle teorie incarnate permette di affermare che il corpo non è solo un oggetto degli studi di genere ma che può diventare esso stesso luogo di emancipazione nel quale svelare i meccanismi dell’oppressione contemporanea

Quello che troverete nelle righe e nelle pagine successive è il frutto di un’indagine in tale contesto, svolta durante gli ultimi due anni accademici e conclusa con una ricerca di tesi. Nasce inizialmente come un inventario digitale di azioni, corpi, artistei e collettivi. Uno studio che vuole focalizzarsi su corpi in relazione con lo spazio e il tempo in cui è situato, ma anche corpi che diventano essi stessi spazio nel quale si intrecciano le dinamiche e i valori sociali.
Muovendomi tra i canali online e offline, ho cercato di raccogliere azioni militanti che avevano come comune denominatore l’uso performativo del corpo nello spazio pubblico e istituzionale. Cercavo corpi che rompessero l’ordine dominante al fine di riappropriarsi dello spazio e di rivendicare esistenze minoritarie che dai vantaggi tecnologici sono escluse. Corpi che si confrontano con l’ambiente odierno in cui viviamo, invaso dai campi elettromagnetici dei dispositivi wi-fi e controllato dalle pillole di estrogeno contraccettive, che esplorano le info-bio tecnologie, le loro implicazioni nel politico e nel culturale, ma soprattutto i loro effetti nella costruzione dei corpi sociali.

L’inventario si restringe su un corpus di sei artistei che qui vi propongo come progetto curatoriale, come riassunto di questo percorso scientifico autogestito. Una scelta che indaga e discute l’uso del performativo vissuto nell’ambiente trans, queer e decoloniale che è stato reso laboratoriale, cioè capace di creare pratiche e relazioni che interagiscono con luoghi, persone e saperi.
Artistei che hanno perciò impegnato il loro stesso corpo come topografia nella quale ibridazioni tecnologiche si innestano per svelare gli algoritmi del potere normativo che regola generi, sessualità e razze. Un processo atto ad incarnare possibili evasioni future che non prevedono solide classificazioni ma caotici percorsi fuori dal normale. Azioni che si appropriano dei saperi e dei dispositivi della realtà digitalizzata e bio-sorvegliata per tracciare percorsi e identità minatorie. Performance che sono il frutto di individui desideranti di trasformare il reale attraverso quello che Marina Garces ha definito treatment >2, cioè la capacità di percepire il reale, manipolandolo e facendosi contaminare da esso. Una pratica che non passa esclusivamente dalla cognizione del reale, ma che parte dal desiderio e dall’urgenza di creare potere d’azione materiale che mobilita i corpi e modifica la carne.

Di questi sei artistei fanno parte Dana Michell e boychild che hanno creato multiple e differenti stratificazioni di artifici, generando una topografia biologica sulla quale si uniscono ibridazioni inorganiche e organiche. Il loro corpo è il luogo dove avvengono i ricombinamenti, i trapianti e gli incroci, è il luogo per nuove connessioni e contaminazioni tecnologiche per costruire corpi al limite del naturale.
L’alterazione genetica e le conquiste tecnologiche e digitali hanno dunque incrementato le possibilità di senso poiché, grazie allo sfalsamento dei limiti biologici, le identità fisse vengono completamente annullate. Lo sanno bene Victoria Sin e Johannes Paul Reather che mettono in scena una corporeità postbiologica e post-genere, generando un luogo in cui il confine tra corpo naturale e corpo immaginario si dissolve: il corpo del performer si trasforma costitutivamente in un corpo-macchina che non coincide mai perfettamente con una singola individualità ma lo traduce in un proprio linguaggio e lo fa abitare da forze extraindividuali. Corpi mutanti che hanno assorbito tecnologie moderne e che mettono in discussione quale sia il corpo naturale e autentico.
Tabita Rezaire e Mary Maggic attraverso performance laboratoriali e di mutua condivisione, cercano di sensibilizzare il pubblico su questioni urgenti come l’accessibilità equa alla tecnologia dell’informazione, della comunicazione e quelle farmaceutiche, che dovrebbero essere alla portata dei più emarginati per ripensare la realtà sociale, ma da sempre sotto il dominio capitalista.

I corpi out of place, le modalità laboratoriali, la performance, l’etica della cura, la complicità tra ricercatori e artisti, tra insegnati e studenti, i modi di agire, le relazioni costruite, l’utilizzo di tecnologie libere, la contaminazione di pratiche sono tutte metodologie messe in campo dagli artistei qui discussi e che permettono loro di decostruire i codici di lettura nel tentativo di rompere le dicotomie.

Quello che mi ha tanto attratta di queste performance, di questi corpi pubblici, è stata la loro potenza: corpi punk, militanti, mostruosi, marginali che entrano in relazione con lo spazio attraverso performance audaci e riti dissacranti. Corpi che si fanno metafora dell’eccesso esistenziale: eccesso di immagini, di informazioni, di input, di catastrofi epocali, eccesso di convenzioni e di conflitti.
È il corpo delle nuove ricombinazioni genetiche che non è più una dichiarazione di appartenenza, ma un campo di risemantizzazione. La biopolitica che definisce corpi sessualizzati e razzializzati viene ribaltata da corpi-laboratorio che diventano il luogo in cui discutere in maniera meno accademica il significato di corpi queer e freak.

Il performativo appare in questo contesto come il piano di immanenza dell'arte, perché i corpi sono politici e la politica si può fare anche con i corpi. Le azioni di questi artistei non sono solo vettori di cambiamento politico ma sono esse stesse politiche. Un terreno comune che si espande oltre ogni divisione d’identità e convenzione. Performance che fanno tornare il corpo in scena presente nella sua carnalità, nella sua potenzialità emancipatoria, tornando ad essere il luogo dove poter evidenziare lo scontro tra potere normalizzante e comportamento deviante, portando il discorso all’altezza della complessità odierna, fatta di repressione corporea, sessuale e di tecnologie avanzate.

L’obbiettivo è cercare di riprendere possesso del proprio corpo collettivo per realizzare differenti forme di connessione. Che esse siano corpo-macchina, corpocorpo o corpo-molecola, devono ribaltare ciò che pensiamo di conoscere riguardo la nostra carne, i suoi piaceri e le sue relazioni. Necessitiamo di questi spazi, di queste coalizioni, di queste forme d’arte che continuano a rendere conto della produzione simbolica in termini di generazione di forme di vita. Materia che si concretizza producendo effetti di realtà per mostrarci e farci comprendere la complessità del momento storico-culturale e adattare le nostre strategie.
Dare forma e moto alla propria carne pensandola come luogo di enunciazione significa poter dare credibilità ai desideri imprevedibili. Solo in questa maniera potremmo tradurre le pratiche non conformi come rivendicazione politica, necessaria per riorganizzare la “vita” stessa a partire dai noi.

NOTE
1 > Con bio-info tecnologie s’intende l’insieme delle attività tecnologiche odierne che comprendono la creazione di dispositivi per l’accesso all’informazione e la comunicazione globale, ma anche l’impiego industriale di tecniche biologiche per la produzione di sostanze farmacologiche, tecniche dell'ingegneria genetica e della biologia molecolare per la produzione di materiali biologici.
2 > Il termine treatment che potremmo tradurre in terapia, cura o accoglienza compare nell’articolo “Honesty with the real” di Marina Garces del 2012. Garces ha parlato nell’articolo di pratiche artistiche politicamente impegnate, cioè in “negoziazione” con il reale, come prassi politica che si faccia colpire dal reale. Treatment sta dunque ad indicare un intervento sul reale per modificarlo e per accoglierlo per costruire pratiche artistiche politicamente coinvolte.

MARY MAGGIC
Open source estrogen
A Manifesto
Or
6 point plan for hormone queering

ONE
Unearth the dominant patriarchal agents of hormonal production and pollution…
Build public understanding of the xeno forces at play

TWO
Demystify the institutionalized “black-boxed” knowledge of biochemistry, endocrinology, and ecotoxicology. Pave way for hormone hacking, freak science, and amateur exploration.

THREE
Resist neoliberal pharmaco-capitalist profiteering of (un)consenting bodies.

FOUR
Reject glorifications of “the natural” condemnations of “the unnatural” and rhetorics of technosolutionism that promise to elucidate both.

FIVE
Undermine deeply entrenched notions of (eco)hetero-normalcy and purity. Use “queering” as a reclaimed potential for resistance.

SIX
Consider the micro-performativity of hormones as an agential power of not only molecular colonization but also molecular collaboration.

WE WRITE OUR OWN FUTURE

Testo: Mary Maggic, Open Source Estrogen, a Manifesto, video, 2017

VICTORIA SIN
And there is no way I could express that in words.
You and I. We have been sculpted by every experience in our life, which gives us specific perspectives that we embody and then speak as objective knowledge and really what good could come of that.
But we know we have sculpted by experience so we know we can be sculpted and we know we can sculpted ourselves, we know that we can name our experience, we know we that we can name ourselves.
[…]
I want to use words to tell you that I am more than you could say because you have not been given the words to describe how multiple yourselves are.

Testo: Victoria Sin, If I had the words to tell you we wouldn’t be here now, performance, Biennale di Venezia 2019

TABITA REZAIRE
Here’s the midday sun
It’s realm of fire
It’s also the zenith of the days and it’s where the Sun is the hottest
It’s also the realm of masculine energy and in our cosmic realm the atmosphere is the material
world and the lowest fear is the spiritual world
So here we had the pinnacle of material world
So how do we connect here?
Through the internet, our favorite
And how does that feel?
Wonderful sometimes and miserable all the times
So, yes. Internet connect us to each other and allow us to reach out and create communities but to reach out to who to which world who has access to it and at which speed at wich cost?
In 2019, 56% of the whole world is connected to the internet with almost 90% of the U.S, 85% of Europe and only 37% of the African continent connected to the Internet.
So the Internet is still very much a space of exclusion.
So i got very interested in the relationship between the Internet and colonialism and how cyberspace could be seen as a colonize and how the violence it inflicted upon people of color.
The Internet is used as a toll for control, for surveillance, for domination and for censorship it’s also used by the Western world to reinforce power former colonized countries and that has been called electronic colonialism

Testo: Tabita Rezaire, Lubricate Coil Engine – Decolonial Supplication, offering, performance, Serpentine Galleries, 2019

Bibliografia

- R. Borghi, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema mondo, Meltemi, Milano 2020
- R. Braidotti, Il Postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Derive Approdi, Roma 2014
- J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Editori Laterza, Urbino 2017
- M. Garcés, Honesty with the real in Journal of Aesthetics and Culture, Vol. 4
- D. J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli Editore, Milano 1995.
- Donna J. Haraway, Testimone_Modesta@ FemaleMan©_incontra_OncoTopo™, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2000
- Donna J. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere in un mondo infetto, NERO, Roma 2019 - H. Hester, Xenofemminismo, NERO, Roma 2018
- M. Maggic, Open Source Estrogen: From biomolecules to biopolitics… Hormones with institutional biopower
- P. B. preciado, Testo Tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era della farmacopornografia, Fandango Libri, Roma 2015
- H. Velena, Dal cybersex al transgender: tecnologie, identità e politiche di liberazione, Castelvecchi, Roma 1998