“Il bambino che voleva sintetizzare glucosio”

Testo di Camilla Alberti

Mentre il bambino nasceva, i primi centosettantotto Panarà facevano ritorno al loro villaggio, Nasepotiti. Dopo vent’anni passati a vagare, alla ricerca di un territorio simile a quello della casa che erano stati invitati a lasciare.
Centosettantotto persone poggiavano i piedi sulla terra del ritorno mentre lui lanciava il primo vagito acuto, stridulo e incerto. Il pubblico che ascoltava quel lamento era felice, grato alla vita per il dono dalla pelle violacea e raggrinzita. Quando l’ossigeno regolarizzò il colore della pelle liscia del neonato, i Panarà avevano già piantato le prime patate dolci a più di novemila chilometri da lui. Il suo corpo, paffuto e roseo, era divenuto un’attrazione turistica che richiamava più curiosi di quanto non facesse una qualsiasi reliquia nelle chiese della capitale.
Quando i villaggi sorsero fondendosi con la natura circostante, lui era a casa. In una camera dalle pareti azzurre, due delle quali riportavano deformi imitazioni di nuvole bianche. Sorridevano. Quelle macchie di pittura erano più felici di lui, un ammasso intorpidito di accenni muscolari e dolori. Non conosceva la pace né il sonno, ma solo fame e urla. I genitori tennero duro quanto bastava per non perdere la salute mentale e soffocare il neonato nelle poche ore di sonno che si concedeva. Sorridevano amorevoli come quegli abbozzi di nuvole sulle pareti della stanza.
Il bambino conobbe infine il silenzio quando le attività del popolo Panarà si erano ormai fuse con il paesaggio in un unico flusso dinamico di corpi. Il neonato imbronciato imparò a ridere, ad accettare il sonno e il buio della notte mentre i genitori tornarono ad amarsi, senza più interruzioni o crolli nervosi.
Al bambino fu insegnata ogni cosa, lentamente così come doveva essere fatto. Farfugliava parole così bene che i genitori potevano quasi sempre comprenderlo e l’andatura sicura a carponi si evolse molto velocemente in una camminata incerta ma determinata. Ogni successo era motivo di orgoglio per quelle due persone, non ancora trentenni, giovani e inesperte. Lei tirocinante in una farmacia, lui operaio di un’officina meccanica. Si erano conosciuti in un bar durante una festa di compleanno di un amico comune a entrambi, sei anni prima. Una storia vincolata all’eternità dalla nascita del figlio. Decisero di voler fare le cose per bene, come mai le avevano fatte durante le loro vite. Stanziarono un piccolo fondo di famiglia in cui i soldi venivano investiti in sedute mensili da uno psicologo in città. Un luminare, secondo i loro amici. Ottanta euro l’ora per: ragionare sul da farsi, porsi obiettivi, superare l’ansia genitoriale e sperare di crescere una creatura senziente. Riuscirono a fare molto meglio.
Otto primavere più tardi, al primo rigoglio dei germogli, il bambino si trovava nel cortile della scuola intento a raccogliere rami, foglie, sassi e gusci di ghiande. Li infilava nelle tasche del grembiule dividendo il bottino. Tasca destra reperti vegetali; tasca sinistra reperti minerali e varie. I suoi compagni gli giravano attorno sprecando parole che lui non ascoltava. Era diventato bravo a ignorare chi lo importunava senza perdere la calma e menare le mani. Gli attacchi di rabbia, però, erano difficili da controllare, ma il signore vestito di nero con i capelli grigi lo aveva aiutato. I genitori non poterono che ringraziare ancora una volta lo psicologo, luminare dagli occhi sottili, divenuto ormai pastore instancabile di quel piccolo gregge sperduto. Tutto però aveva un limite, anche il suo autocontrollo e quando un bambino dai capelli neri e gli occhi marroni afferrò la sua ghianda schiacciandola a terra con il piede, lui non poté resistere. Lasciò cadere ciò che aveva in mano e afferrò i capelli del compagno, strattonandolo fino a buttarlo a terra. Le maestre non lo videro fino a quando un gruppo di bambini non corse da loro piangendo. Lo trovarono mentre obbligava il compagno a masticare il guscio appuntito della ghianda che aveva osato rompere. L’incidente dilagò in un caso pubblico che coinvolse l’intera scuola. Era la quarta volta che uno studente veniva colpito dalla furia di quello strano bambino. Aveva picchiato una sua coetanea con un ramo di un albero che lei aveva pensato bene di rompere a suon di calci. Si era azzuffato con un bambino più grande perché, durante l’intervallo, sradicava i gladioli che coloravano la recinzione est della scuola. Aveva quasi rotto il naso a un suo compagno dopo che aveva distrutto il nido di un merlo e una settimana dopo aveva fatto piangere una bambina più piccola che tirava sassi al salice secolare che ombreggiava il cortile secondario. Dopo quell’ultimo atto di follia, le madri delle vittime fecero una petizione per allontanare il bullo recidivo, pericoloso e maleducato. Non accadde nulla di tutto ciò e la petizione svanì nel giro di una settimana, tempo in cui il bambino fu sospeso dalle lezioni.
“Perché lo hai fatto?”
“Ha rotto la mia ghianda.”
“Non è una buona ragione.” Lo interruppe il padre nella sua divisa macchiata di olio. “Non puoi picchiare i tuoi compagni.”
“La violenza non va mai bene! Non è mai la scelta giusta.” Lo incalzava la madre.
“Ma loro sono violenti!”
“Ti hanno mai colpito?”
“No, ma passano l’intervallo a distruggere tutto ciò che c’è nel giardino della scuola. Se non ci fossi io avrebbero ucciso tutto.” I genitori rimasero zitti, si guardarono l’un l’altro incapaci di trovare un modo per far ragionare il figlio.
Durante la settimana di sospensione, madre e padre si trovarono a fare dentro fuori l’ufficio del preside in compagnia dello psicologo che aveva seguito la famiglia fin dagli esordi. L’accordo finale prevedeva l’accompagnamento giornaliero del bambino da parte di una maestra di sostegno.
Tornò a scuola di lunedì. Lo portò sua madre in macchina, venti minuti dopo il suono della prima campanella. Il bambino aveva capito che qualche novità avrebbe disturbato la sua routine di guardiano del giardino. Entrarono nell’ufficio del preside. Una stanza a pianta quadrata, piena di mobili d’un legno scuro e laccato lucido. Uno spazio fittizio, fatto di cadaveri e astrazioni di oggetti condotti troppo lontano dalla loro natura per poterne conservare il ricordo. Lì, in piedi vicino alla lunga scrivania, c’era l’uomo al vertice di quel sistema detentivo scandito da intervalli e campanelle. Al suo fianco una donna formosa dai capelli ispidi e un paio di occhiali con la montatura nera. Ci furono le dovute presentazioni, corredate da sorrisi e voci gentili. Il tutto durò non meno di una decina di minuti, dopo i quali il bambino e la sua nuova insegnante uscirono dall’ufficio, mano nella mano, e si diressero verso il corridoio delle classi. Per quel primo giorno scelsero un’aula vuota, così da poter impiegare le ore rimanenti a parlare e conoscersi. Lei, però, lo sottopose a un interrogatorio dopo aver appurato che l’interesse del bambino a conversare fosse inesistente. Dopo due ore arrivarono al nocciolo della questione, il motivo per cui quella donna si era palesata nella sua vita senza alcuna possibilità di sparire.
Suonò la terza campanella. Era l’intervallo. Il bambino si alzò.
“Rimaniamo qui oggi, ti va?” Lui scosse la testa con decisione, senza nemmeno vagliare quella possibilità. “Non ti va di stare ancora un po’ con me? Vorrei chiederti ancora delle cose.” Il bambino disse: “Devo andare” ma in realtà pensava: cos’hai ancora da chiedermi?
“Dove devi andare?”
“In giardino con gli altri.”
“No oggi è previsto che tu non stia con gli altri bambini, sai le cose che hai fatto sono… gravi.”
“Loro hanno fatto e faranno di peggio se io non vado.” Non capiva nemmeno la necessità di quella conversazione che gli stava rubando minuti preziosi di sorveglianza.
“Cosa vuoi dire? Ti hanno mai fatto del male?” La donna si tirò in piedi come se avesse scoperto l’origine del male nel mondo. “Non a me, ma distruggono tutto il resto. Io, maestra, non ho mai ucciso nessuno, loro sì, ogni giorno, a ogni intervallo.” Un brivido gelido fece sussultare la donna.
“Coraggio siediti, parliamo di questo” Era inutile parlare. Le parole non sarebbero servite a nulla. Un mero temporeggiare mentre quel giardino si stava trasformando in un campo di guerra. Resistenze passive contro bulldozer bipedi. Si concentrò a modellare lo sguardo più intenso che riusciva a padroneggiare, ma nulla. La donna attendeva solo che lui si sedesse, invitandolo con colpetti ritmici del palmo sul tavolo. Gli balenò nella mente di saltare al collo anche di quella persona, classificando quel suo comportamento come ‘intralcio alla difesa del vivente’. Dovette desistere. Nemmeno lui sarebbe stato pronto alle conseguenze che quell’azione avrebbe portato.
“Perché dici che loro uccidono? Ti rendi conto del significato di questa parola?”
“Vuol dire che dopo l’azione di qualcuno un essere vivente poi non vive più.”
“Ok e in che modo i tuoi compagni…” Lui iniziò a disporre file di concetti, nomi e processi biologici nella mente, pronto per dar fondo alle sue conoscenze acquisite durante le ore di scienze.
“Maestra sai che il verde del giardino sono esseri vivi?” La donna annuì sorridendo con sicurezza. “E anche tutti gli altri animali sono vivi.” Lo sguardo della donna si fece attento. “Molti dei bambini che giocano durante l’intervallo uccidono gli esseri verdi. Una volta mi hanno messo in punizione perché avevo fatto scappare un bambino che strappava dalla terra dei fiori.” “Lo hai picchiato?”
“All’inizio gli ho parl
ato, ma lui continuava e allora l'ho spinto. Lui era più grande e mi ha buttato per terra così io ho fatto lo stesso.” “Mi hanno raccontato anche che hai colpito una bambina con un ramo. È vero?” Lui abbassò lo sguardo e annuì. “Perché?” “Erano in cinque e stavano attorno all’albero vicino al cancello, quello argentato.” La donna annuì. “Stavano tirando i calci a un ramo basso perché volevano romperlo. Quando mi hanno visto se ne sono andati tutti, tranne la bambina che tirava calci sempre più forti e poi ha rotto il ramo.”
“E tu l’hai colpita?”
“L’ho inseguita con quel ramo che aveva rotto. Volevo solo spaventarla, ma poi lei ha rallentato e io no. La punta del ramo le ha graffiato un braccio.” Seguirono lunghi attimi di silenzio. Momenti in cui il bambino pensò di aver trovato una persona che capisse, quantomeno in parte, l’importanza del suo compito giornaliero. Nella testa della donna si era aperto, però, uno scenario ben diverso e il suo cruccio stava nel modo in cui far capire al suo allievo che non si poteva ferire un compagno perché strappava un fiore. La vita degli umani non era comparabile al resto e per questo la sua logica infantile non poteva persistere. Alla fine della giornata il piccolo guardiano del vivente aveva perso ogni speranza negli individui della sua specie.
Le ore con l’insegnante di sostegno non risolsero nulla. Nemmeno quelle con lo psicologo furono di grande aiuto. Il bambino non aveva trovato nessuna ragione tanto sensata da poter confutare la sua filosofia di vita. Si convinse di aver ragione e continuò a pattugliare severamente ogni centimetro di giardino. Collezionò altri tre scontri vinti prima di essere cacciato da scuola. Terminò gli ultimi anni delle elementari in un collegio a pochi chilometri da casa, dove ogni cortile adibito all’intervallo era coperto da una scacchiera grigia e gommata.
Avanzando nella sua carriera scolastica rimase l’individuo strano, quello solitario e incomprensibile. Un ragazzo che collezionava rametti secchi, ghiande, foglie e sassi tutti stipati nella sua camera, tra le mensole e gli armadi. Assemblati in forme amorfe. Ibridi vegetali la cui forma ricordava un corpo umano sciolto, smembrato e ricomposto. Cittadini di un mondo lontano. Abitanti di architetture invisibili. La razza umana perduta e di cui lui poteva essere l’unico sopravvissuto. Continuò a predicare il verbo vegetale, ma smise di combattere guerre fisiche avventandosi sui compagni come un animale rabbioso. Durante il campo estivo alla fine della quinta elementare, lo portarono in un bosco su montagne a lui sconosciute. Ricordava le lunghe ore di pullman che avevano cancellato il grigio dei palazzi di città aprendo lo sguardo verso pinnacoli verdi. Rimase sperduto in una baita con altri dieci bambini per una settimana, durante la quale si riempì l’anima di tutte quelle presenze verdi che le colate di cemento e gomma della sua scuola avevano coperto. Non si azzuffò con nessuno dei suoi compagni. Nove prescelti che forse, quasi quanto lui, custodivano la memoria di una familiarità con il mondo verde. Fu l’allievo più brillante e disciplinato dell’intera squadra, durante le passeggiate e le brevi lezioni sotto gli alberi. Imparò a stare fermo per lunghi minuti, senza parlare né pensare nel linguaggio umano e capì che per anni aveva sbagliato. L’uso della violenza lo aveva allontanato dalle sue origini verdi per condurlo nel mondo più prossimo all’uomo, quello degli animali. Ora seguiva il cammino giusto.
La sua fama ormai lo precedeva. Il tipo strambo che alle elementari picchiava i bambini. Il raccoglitore di ghiande. Ritardato. Asociale. Aleggiava la voce che fosse addirittura un pervertito. Passò da essere quello da cui tenersi alla larga a quello da importunare. Ogni giorno qualcuno si metteva davanti a lui richiamando il soldato alle armi, ma lui respirava, si spostava e continuava dritto. Ignorare era diventato il suo verbo preferito. Adattarsi ed evolvere, la sopravvivenza di coloro che hanno sempre resistito. Doveva continuare il suo progetto, una missione che superava il mero compito di guardiano e prevedeva l’abbandono della sua stessa specie di origine. Scarabocchiava paragrafi illeggibili per coloro che non erano lui. Frasi sconnesse racchiuse in simboli e trattini che non appartenevano ad alcun alfabeto conosciuto. All’intervallo ritraeva gli alberi che vivevano davanti al cancello principale dell’edificio scolastico. Due gelsi dalle foglie seghettate e i frutti dolci come caramelle. Disegnava il tronco, poi correva alla chioma scarabocchiandola nella sua totalità, prima di scegliere un particolare e miniaturizzarlo all’angolo del blocco da disegno a spirale. Cambiava foglio e iniziava ad aprire il tronco in sezioni verticali. Scorticava il corpo dalla sua corteccia evidenziando lo strato sottostante, poi toglieva anche quello, per disegnare un sistema intricato di canali, fori e frecce che salivano e scendevano in un vortice senza fine.
A tredici anni compiuti, iniziò un corso di meditazione serale che seguì per due sole settimane, dopo le quali capì che la concentrazione richiesta, il ritmo della respirazione e la mente vuota non erano cose che avevano a che fare con gli esseri vegetali. Abbandonò la palestra e si spostò all’interno di un piccolo manipolo di alberi a settecento metri da casa sua. Nessuna traccia di abitazione nei dintorni, ma le piante crescevano in un reticolato somigliante alle griglie logiche di un bambino. Non c’era nulla di originale in quel posto. Gli esseri umani lo avevano già distrutto e ricostruito. Decise che si sarebbe accontentato di quegli alberi disciplinati pensando che sarebbe potuto essere più semplice comunicare con creature che conoscevano già la sua specie di provenienza. Si sedette al centro di quelle volte verdi obbligandosi a stare fermo per ore, in ascolto. In pochi mesi estese la sua resistenza da due a cinque ore, senza nemmeno preoccuparsi di inventare scuse plausibili con i genitori, ormai arresi alla pazzia del figlio. Il suo stomaco non conosceva più nulla che non fosse di origine vegetale. Da due anni non mangiava niente che potesse ricordare al suo corpo l’esistenza animale.
A quindici anni, era vicino alla fase finale del suo progetto. Aveva ridotto allo stretto necessario i contatti con chiunque esercitasse il movimento e non avesse delle foglie. Entro pochi mesi la scuola sarebbe finita e le vacanze avrebbero visto l’attuazione della sua ascesa al mondo vegetale. Quello che sarebbe successo dopo non avrebbe avuto importanza per lui. Al fine di non allarmare l’attenzione di nessuno, però, si trovò costretto a scegliere un percorso di studi sensato, in linea con la sua vicinanza alle scienze naturali. Professori e parenti tirarono un sospiro di sollievo nel constatare che il ragazzo aveva ancora capacità decisionali logiche e coscienza di sé. Lui poteva continuare la sua trasformazione lontano da occhi indiscreti. Prima dell’arrivo delle vacanze decisive allenò il suo corpo a resistere alla fame fingendo cene in camera sua per poter continuare a studiare in vista dei prossimi anni. Il cibo finiva dritto nel gabinetto del piano superiore. Il 10 giugno. L’obbligo alla vita umana avrebbe cessato di esistere di lì a pochi giorni, una volta salito sul pullman che lo avrebbe portato lontano dalla città, tra quei pinnacoli verdi conosciuti anni prima.
Non era solo, altri cinquantadue ragazzi, tra maschi e femmine, condividevano lo stesso alloggio. Un grosso casale in legno con un ampio salone occupato da lunghi tavoli di abete. Una cucina e una rampa di scale cigolante che portava ai due piani superiori. Il primo per le ragazze. Il secondo per i ragazzi. Durante il giorno si alternavano attività di gruppo e passeggiate. Una costellazione d’impegni inutili da cui l’aspirante vegetale doveva trovare il mondo di fuggire. Tenne duro per i primi tre giorni sgattaiolando via, soltanto, per poche ore serali, quando nessuno lo avrebbe potuto cercare. Nelle passeggiate diurne scopriva anfratti nascosti dall’odore pungente di terra umida e resina di pino. Alla sera, durante le fughe temporanee, meditava in solitaria respirando il sollievo dell’origine.
Il quarto giorno inventò un malanno e chiese agli adulti, responsabili della loro sicurezza, di poter restare in camera. Non si opposero. Lui attese che il gruppo si fosse incamminato sul nuovo sentiero da esplorare e dopo pochi minuti sgattaiolò via dalla porta principale eludendo la sorveglianza di un uomo troppo annoiato per badare a lui. Corse nella direzione opposta al gruppo, inerpicandosi nel folto. Continuò a correre fino a quando fu abbastanza lontano da non rischiare il pericolo di incrociare la squadra in passeggiata. Ora doveva solo scegliere il luogo. Voleva fosse uno spazio pulsante dove la terra, così come i suoi abitanti verdi, conoscesse il segreto della resistenza, del tempo e della vita. Un luogo che lo proiettasse al di fuori di se stesso. Lo trovò dopo due ore di passi frenetici in direzioni occasionali, attirato una volta da un suono, un’altra da un odore. Una pozza di terra nera su cui i raggi del sole danzavano in cristalli di luce proiettati dalle volte sferiche di foglie e aghi. Si tolse le scarpe e affondò le piante dei piedi in quel terriccio che macinava corpi da più tempo di quanto non esistesse la sua stirpe. Si tolse la maglia, i pantaloni e ogni altro genere di copertura che potesse ricordargli l’umanità. L’aria era pungente, non fredda, ma solcava comunque la pelle facendola contrarre in brividi sconnessi. Si sedette con la schiena dritta mentre le mani affondavano come radici nel terreno. Imitò la crescita delle radichette muovendo le falangi al rallentatore per cercare la sua immobilità.
L’odore della morte che nutre la vita. L’umidità correva sui tronchi ormai fratelli, guardiani eterni di un mondo che il buonsenso umano aveva distrutto. Ceppi attorcigliati, fatiscenti brulicavano di creature. Sentì muovere filamenti fungini tra le dita dei piedi mentre piccoli ragni tessevano nuove vesti per lui. Iniziò a perdere ogni cosa. I ricordi correvano via come perle da una collana rotta. Si sfilavano uno dopo l’altro rotolando lontano. La luce e il buio non scandivano più il tempo. Nel momento in cui si era tolto le scarpe, i minuti avevano cessato di scorrere iniziando a vorticare in anelli concentrici. La notte inumidiva la sua pelle e il giorno la asciugava. Il vento del tramonto faceva scricchiolare i tronchi e i rami, cui le sue ossa rispondevano con cigolii sommessi. Il corpo cadeva pezzo dopo pezzo fagocitato da una favola lugubre, vecchia milioni di anni. Disperdendosi su quel terreno nero, tornò a qualcosa che non c’era più da tempo.

“Camilla Alberti: La rovina come stratificazione temporale e creazione di mondi”

Testo di Gabriela Galati

Nel lavoro di Camilla Alberti il concetto di rovina è fondamentale. Non perché tutti i suoi lavori parlino della rovina, ma perché è uno strumento che le permette di capire come diversi agenti, umani e non, creino dei mondi attraverso un processo di stratificazione. Questo processo va oltre l’idealizzazione estetizzante del passato alla Piranesi, ma anche e soprattutto, oltre quello che diverse autrici contemporanee hanno chiamato “la retorica del declino” (Heise 2010), o “ruin porn” (Zylinksa 2017)1. In quest’ottica, c’è una specie di godimento in certe opere, in particolare fotografiche (Zylinska 2017: 86), nel prevedere un futuro non lontano in cui il mondo come lo conosciamo possibilmente non ci sarà più, e in particolare, nello speculare su una situazione di estinzione del genere umano così come di altre specie.
A questa visione apocalittica, Joanna Zylinska propone un’alternativa basata sulla idea di precarietà (Tsing 2015), in cui niente è assicurato per nessun essere e in cui la interdipendenza, interrelazionalità e, se possibile, un certo tipo di solidarietà tra il vivente e il non vivente sono, forse, l’unica possibilità di creare “contro-apocalissi” (Zylinksa 2018). La ricerca di Camilla in generale, e la sua concezione della rovina nella serie di lavori qui presentati in particolare, è riconducibile a questa visione: non una concezione “apocalittica” della rovina o l’idealizzazione delle “rovine buone del passato”, che possono essere estetizzate perché sufficientemente lontane nel tempo anche se riconducibili a certi orrori come guerre o terremoti.
Quello di Camilla è quindi un concetto di rovina che considera il tempo come stratificazione: come residuo di sovrapposizioni di diverse temporalità e modi di essere al mondo che avranno eventualmente la capacità di funzionare come modelli d’ispirazione per trovare nuove vie di uscita.
In ognuna delle sculture delle diverse serie qui presentate si trova una molteplicità di approcci a rovine possibili che permettono di imparare modi differenti di convivenza, e di essere e creare mondi: quello delle piante, quello dei funghi, del legno, degli animali, dei metalli. In particolare, queste opere articolano il concetto di rovina con quello che si chiama oggi “plant-turn”, ovvero, guardare e cercare d’imparare dal paradigma vegetale, dalle logiche, strategie, ai modi di essere al mondo nonché di costruire mondi delle piante. Per questo numero di ISIT, oltre alle opere, abbiamo selezionato insieme a Camilla un suo racconto breve che parla della possibilità e del desiderio di divenire-pianta.