acheronte

La nostra città sorge su un fiume dall’ampio corso, pervaso da una placidità all’apparenza inattaccabile; sull’altra riva si apre un’amena distesa che si sperde all’orizzonte, tra barbagli di luce riflessa dall’erba e la coltre azzurro intenso del cielo. Non c’è modo di attraversarlo se non per mezzo del vaporetto che, alla regolare cadenza di ogni ora, salpa da una sponda e raggiunge l’altra, macilento ma inappuntabile, per poi fare ritorno e di nuovo ripartire, con un carico di passeggeri diretti sempre lì, oltre il chiasso e le barriere in cemento del tristo agglomerato urbano, verso spazi aperti e luoghi senza nome né precise coordinate geografiche. Il vecchio battelliere lo chiamano Caronte e, se avete mangiucchiato qualche frase di dantesca provenienza, potrete ben immaginare il perché. Purtuttavia, non è alla morte ch’egli li inizia e, seppure ciò che attende al di là delle acque assuma, da qui, le tinte di una sorta d’oblio della propria identità, è con leggiadra beatitudine che i fortunati destinati alla traversata vi si abbandonano, incuranti di quel che lasciano, dei cubicoli prefabbricati e delle definizioni goffamente modellate a colpi d’accetta. Si dice, qui dove dire conta ancora erroneamente qualcosa, che non una parola venga mai pronunciata al di là delle acque, come se queste venissero dismesse una volta a bordo e lasciate cadere tra i flutti, abbandonate alla corrente e mai più recuperate. La comunicazione si riduce a sguardi e cenni, talvolta a qualche immagine raffigurata con i mezzi di cui si dispone al momento; i volti angelicati degli eletti che compiono la traversata non hanno davvero bisogno d’altro che di questo, per esprimersi compiutamente.
Tornando a noi, invece, alla calca che frusta si arrabatta quotidianamente per un briciolo di significato, intorno non vediamo che cartelli e insegne: nomi d’illustri signori passati a miglior vita che nobilitano piazze e vie; toponomastica fitta e varia, scandita da frecce e numeri a indicarne posizione e distanza; attività commerciali di vario genere promosse da ben poco fantasiosi giochi di parole oppure, ove trattasi d’imprese a conduzione familiare, recanti anno d’ingresso nel mondo degli affari e generalità del glorioso e vetusto padre fondatore. Ovunque e comunque, tentativi di schematizzare ciò che ignoriamo, per renderlo un pelino meno spaventoso alla mente e un tantinello più confortevole allo sguardo.
Come avrete già intuito, non potevo sentirmi a mio agio in un tale stato di cose; non tanto per gli stracci di cui amo cingermi le carni e che, passate le fisiologiche occhiate colme di sbigottimento dettato da piccata incomprensione, hanno finito anch’essi per dettare una propria tendenza e per essere etichettati dal mercato e dalle sue leggi che tutto fagocitano e tutto risputano, laccati e ben rifiniti per le passerelle e le ceste di capi in saldo dei negozi nei centri commerciali; proprio no. Quello che non sopportavo, e che tuttora non posso riuscire ad accettare, sono quei cartelli, nel mezzo della giungla di etichette che tutto tappezzano, che puntano esattamente al mio cuore, al tuo e a quello di ogni altra persona censita, riducendoci ad atone voci, a inespressivi urli di Munch buoni per gli almanacchi o al massimo per le lapidi di un cimitero.

Massimo, frocio. Greta, buonista. Leda, puttana. Angelo, brava persona. Samantha, razzista. Andrea, ignorante. Alan, stramboide. E via dicendo, nome per nome e definizione per definizione.

Fu così che, un bel dì, mi unii a una silenziosa brigata di donne e uomini, come me insofferenti verso le limitazioni imposte dalla parola e dal suo inesatto utilizzo, con lo scopo di sparigliare le carte e sollevare così il giogo, verbale e verboso, che ci opprimeva tutti. Decidemmo di partire, mi sono forse tradito qualche rigo fa, proprio dal vicino centro commerciale: ci saremmo intrufolati col favore delle tenebre, eludendo guardie e videocamere di sorveglianza, per derubare i vari negozi all’interno delle rispettive insegne e confondere le idee, scambiando di posto a tutta la segnaletica possibile: le toilette sarebbero state vergate da un indisponente “Vietato l’accesso”, mentre ai bisogni corporei sarebbero stati demandati i fidati sportelli del bancomat. Non ci saremmo mai riusciti senza l’aiuto di un infiltrato, ma le nostre fila erano abbastanza numerose e variegate da poter contare su uno degli addetti alla sicurezza. Fu un successone, almeno finché l’ordine consueto non fu ripristinato, dando alla cosa più lo spessore di una bravata adolescenziale che di un autentico atto di rivolta contro le catene del pensiero omologato. Un po’ di confusione, un leggero tanfo di merda che si spandeva lungo le navate della gigantesca cattedrale eretta al dio Consumo, qualche episodio d’isteria e, dopo un solo giorno di chiusura, tutto tornò alla normalità.
Capimmo subito che di spazio, lì in città, per noi ve ne sarebbe stato ben poco e che, piuttosto che investire tempo ed energie per tentare di abbattere quel moloch invincibile, meglio sarebbe stato cercare una nuova realtà che ci ospitasse, vergini di nome e bendisposti alla rinascita. Da lì l’idea di tentare la traversata del fiume a nuoto e cercare così la felicità in quelle lande di cui si favoleggiava, naturale approdo di una condizione che denotava tutti i crismi della disperazione. Caronte non ci avrebbe mai lasciati salire a bordo: troppo cenciosi e squattrinati eravamo, per poterci permettere quella gita con i mezzi canonici. Mi offrii tra i volontari senza esitazione alcuna, pronto anche a rimetterci la pelle, se necessario. Scegliemmo il confortevole manto notturno a protezione dallo sguardo marziale del barcaiolo, che ci figuravamo come una sorta di spirito guardiano che tutto sa e non lascia scampo alcuno ai disertori. Individuammo un lembo di riva protetto ai sensi dal folto di alberi nati e cresciuti lì per caso, i cui semi erano senz’altro stati ivi trasportati dalla corrente. Era quella che speravamo fosse la nostra sorte, che lo scorrere delle acque ci depositasse sull’altra riva, come un dio benevolo che provvede ai suoi fedeli in adorazione, anche se nessuno di noi poteva dirsi fervido credente di alcunché.
Avete presente cosa si prova in balia di un corso d’acqua? Provi a entrarci con il massimo della circospezione, a eseguire movimenti natatori e fasi respiratorie come e meglio di quanto tu abbia mai immaginato di fare, ma il tutto si rivela semplicemente inutile: perdi presto ogni punto d’appoggio, cerchi un appiglio tra le liquide coltri spumose che ti attirano verso il fondale e il panico si prende man mano l’intera piazza e ti fa partire del tutto la brocca. Ci eravamo tuffati, io e altri tre, perché la vita in città, l’esistenza trascorsa come cibo in scatola negli scaffali di un supermercato non era più tollerabile; ma questo non significava automaticamente essere davvero pronti a morire, come invece avevamo creduto. Ci salvò Caronte. Di notte batteva il fiume lungo tutta la parte rasente la città; sembrava non dormire mai, ma suppongo le anime e i fantasmi non ne abbiano bisogno, di riposo. Comprese subito il perché eravamo finiti lì e, tra l’issarci a bordo del suo vaporetto e la consegna alle autorità, il passo fu immediato. Gli altri riuscirono a svignarsela, ma a noi quattro toccò un ridicolo percorso di terapia reintegrativa: ore e ore di video didattici, sedute da psicologi prezzolati dal governo e sessioni multiple di esercizi di grammatica prima, e di scrittura creativa poi – con i dovuti paletti che impedissero a tale valvola di sfogo di essere aperta verso slanci di eccessiva e incontrollata immaginazione. E dove non arrivava il regime punitivo di quella segregazione, a inculcarci il riconoscimento di cosa fosse giusto scrivere (e cosa no) pensavano le lusinghe del capoccia di turno: un capo-sezione di partito, un parroco, un assessore, una personalità della televisione locale, una volta persino un ministro, in visita alla città per un comizio con annessa l’immancabile cena luculliana. Volevano rientrassimo nei ranghi e, presto o tardi che vi riuscissimo, non potevano in alcun modo tollerare che sfuggissimo nuovamente al loro controllo.
Gli esperti mi diagnosticarono una qualche forma di talento affabulatorio: messo in una stanza con carta e penna, ero sempre in grado di tirare fuori roba perlomeno decente. Una cosa, la puoi controllare se sai quale nome assegnarle, se riesci a cucirle addosso un qualsiasi tipo di abito e a circoscriverla entro margini ben definiti. Era questo che miravano a re-insegnarci durante la terapia: a essere soggiogati e, al tempo stesso, a sottomettere, noi stessi, la realtà circostante allo spettro con il quale avevano plagiato il nostro sguardo. Doveva essere come in uno di quei videogiochi bidimensionali in cui i nomi dei personaggi galleggiano al di sopra delle loro teste: ogni cosa, animale e persona accompagnata da una definizione. Per quanto tu ti possa sforzare di allargare il campo e provare a dire tutto, finirai sempre a corto di parole a un metro dal traguardo.
Il fiume, e Caronte nel mezzo, non ci avrebbe… mai… assecondati; non si sarebbe aperto al comando di un nuovo… Mosè… non si sarebbe mai fatto… vagina… tra le pareti d’acqua, nella quale penetrare e… attraverso cui… finalmente, fare rientro a… casa, nel caldo utero ammantato di umido… silenzio. Bisognava fare marcia indietro… confondersi nella massa e… adescando il favore delle giuste personalità di… rilievo, guadagnarsi un posto su quel maledetto… battello… del cazzo. Andammo un po’ per tentativi… cadendo dapprincipio in facili tranelli… per poi… perfezionare, poco a… poco, la sacra arte della catalogazione. Ciò che loro non si aspettavano… ciò in cui davvero li abbiamo fregati… sta nel fatto che siamo riusciti, pian… piano, a malleare, una parola per volta… il sentiero che avevano tracciato… per noi. Ci siamo ritagliati… lettera per lettera… battaglia per battaglia… cartello per cartello… un piccolo spazio, entro cui difendere… ciò che davvero siamo dalla… dilagante marea del… senso comune. Per ora. Il tempo pare… essere dalla nostra parte. Sembrerebbe scontato, avendo a che fare con la lingua… fluida… inarrestabile… come la corrente di un fiume.
Poco a poco… entrando nella parte con crescente perizia e convinzione… dovremo arrivare a vestire i panni dei cittadini… modello. E questi stracci, di cui amo cingermi le carni… un bel giorno… non saranno nulla più che… vocaboli scientemente… inoculati… nel lessico quotidiano. Sarà dura… sfibrante, ma… ce la faremo. C’è da lottare.

E poi, una volta al di… là del fiume… potremo finalmen-… -te… offrirci al… silenzio ed… essere… noi. Scusate la forma poco… invitante. Ho un gran bisogno di… riposare.