focus on research

C’è un filo sotterraneo, affiorante dai meccanismi della sperimentazione artistica, che lega pittura e fotografia come parti contraenti un vincolo segreto. Sebbene le due espressioni nella storia abbiano fatto di tutto per smarcarsi, oppure rincorrersi al solo scopo per potersi differenziare, le due discipline sono soggette a un vincolo il cui nodo centrale è il frutto di un’indagine intorno all’esperienza estetica. Ma l’esperienza estetica senza contenuti è un esercizio retorico, vuoto, sterile. I contenuti sono la base di ogni ricerca, le fondamenta di un linguaggio che si forma e arricchisce il suo vocabolario solo se è pronto a misurarsi e accogliere le esperienze maturate in un altrove solo apparentemente distante. Nelle arti così come nella scienza e in ogni attività dell’uomo non esiste un territorio “sacro”, un luogo di purezza, tutto si sperimenta ed evolve nella commistione di condizioni, di scambi di relazione, in una parola di intelligenze. La fotografia, in questo scorcio di secolo che ha visto la tecnologia digitale fare ingresso nella nostra quotidianità e poiché essa stessa – a causa della sua natura ambigua – si presta più facilmente alla commistione mediatica, stabilendo con se stessa una dimensione dinamica sconosciuta solo poco tempo fa. Tuttavia non è detto che la pittura, sempre in ragione di un antico vincolo segreto e primigenio, non sappia rispondere a quella che Ugo Mulas definì «la naturale agilità del mezzo, cruccio della pittura e sventura della fotografia», insistendo nella ricerca offerta principalmente dalla comunità delle immagini. I lavori di Ettore Pinelli ne sono un esempio. La sua sperimentazione, o meglio dire la ricerca artistica intesa quale percorso concettuale, fonde gli stimoli visivi prodotti dalla masse d’immagini che scorrono davanti ai nostri occhi estraendo i contenuti del sub limine dei frame per versarli nel territorio di una secolarizzazione altrimenti destinata all’evaporazione. Osservando le opere di Ettore Pinelli assistiamo a un iniziale superamento stilistico, a un ribaltamento del moloch linguistico quando non a un vero e proprio “ricongiungimento” interdisciplinare in cui l’insieme delle culture visuali dialogano nella lingua delle suggestioni. Gli steccati sono rotti, gli argini distrutti e la creatività ha facoltà di dilagare. Eppure vediamo, per quanto le opere di Pinelli ci appaiano stilisticamente in possesso di una maturità, di una cifra indipendente e matura, che il suo lavoro è strettamente innervato dall’insieme di episodi visivi che nel tempo si sono imposti come cultura imperante. Fotografia e cinema nelle opere di Pinelli hanno un ruolo preponderante non già in termini di composizione – basterebbe solo questo aspetto per definire la questione – ma nei riferimenti capaci di destare nell’osservatore rimandi creduti sopiti e che invece risuonano con una voce che allarma, che chiama all’urgenza dell’interpretazione. L’obiettivo è ambizioso, è misterioso, ancestrale e sta dentro la dialettica brutale dello scontro come espediente ultimo per risolvere una contesa. L’angolazione della ricerca trova un suo approfondimento nel doppio piano dello scontro, individuale e collettivo nei cui “segni” vediamo come il tema dell’aggressività, della violenza insita nell’uomo fin dal momento della sua nascita, sia risolto nella crisi tra l’attenuazione della ragione e l’esplosione dell’irrazionale.
Dallo stretto punto di vista artistico la ricerca trova la sua soluzione nella vitalità che presiede alle immagini, allo sforzo che conclama la sua forza con il dinamismo del gesto ma noi sappiamo che il segno grafico o pittorico veicola un tema assai più profondo: l’azione nel momento in cui l’istinto prende il sopravvento sulla ragione. Lo spunto, e la relativa trattazione, focalizza la sua attenzione sull’esplorazione di un fenomeno più antropologico che politico. Ha scritto Gustave Le Bon in “Psicologia delle folle” che «individualmente, un uomo potrebbe essere civilizzato, ma nella folla diviene “barbaro” in preda all’istinto. Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento». L’uomo dunque nella massa disperde se stesso, la propria identità, la propria ragionevolezza per assumere un’identità collettiva, amorfa e dissennata, in grado però di generare all’istante un’intesa collettiva, un sentire comune che si autoalimenta in forma acritica. Il gesto violento dell’azione dunque nella perditadel sé cosciente si ritrova nell’atteggiamento autoassolutorio e deresponsabilizzato offerto al momento dell’appartenenza a un gruppo unitario. La massa libera lo stato dell’individuo, la pulsione che egli ha già in sé ma che ha bisogno di attivarsi come pulsione sociale, dando origine a una compiaciuta regressione identitaria. Pinelli dimostra d’avere assorbito la manifestazione plastica della sopraffazione; ne conosce i riti, le improvvise liturgie, gli scatti operando su due piani. Il primo è squisitamente, come si è detto, di natura antropologica, interessando la sfera delle interruzioni delle relazioni tra gli umani.
Il secondo, posto come un contraltare, interessa le inevitabili similitudini da segnalare con il mondo degli animali. Elias Canetti, suscitando l’irritazione di molti sociologi, si rifiuta in “Massa e Potere” di operare una distinzione tra il mondo dei comportamenti animali e quello umano. L’obiezione dei critici riguarda l’assenza in Canetti di valutazioni di carattere sociale, degli sviluppi culturali, delle connessioni storiche, delle specificità etnografiche che, se introdotti nell’analisi, avrebbero ristretto all’uomo – e solo all’uomo – il campo di indagine che invece Canetti aggancia a quello animale trovandovi ineccepibili similitudini. Dunque il lavoro di Ettore Pinelli segue una direzione strettamente incardinata nell’etos, nella rivelazione di una scintilla che l’uomo, per quanto abbia provato a sottacere da secoli di civilizzazione, conserva intatta. Ora è una luce fioca, ora divampa, esattamente come tra i primati; e non è un caso che Pinelli ponga i gorilla in una posizione non subalterna all’azione dell’uomo. Così, nell’antagonismo del gesto risolutore, assistiamo a quella che Kant definisce «la parola senza sillabe della violenza». Dietro ogni immagine, nella riproposizione quotidiana di scene di violenza a cui assistiamo ormai quasi distrattamente, si cela un’assuefazione: la violenza, nel suo portato barbarico e regressivo, evapora come fumo, lasciando che l’intenzione sensazionalistica stabilisca una propria cifra estetica.
Noi invece sappiamo dell’esistenza dei contenuti, noi conosciamo la natura salvifica del dubbio e dunque ci interroghiamo circa i contenuti profondi della continua riproposizione mediatica. Cinema e fotografia, nelle rispettive declinazioni di genere – si pensi, nel caso della fotografia, ai reportage dei teatri di guerra – hanno imposto una koinè articolata e mutevole con il mutare della sensibilità della società. Nel caso della cinematografia la rappresentazione della violenza si arresta ai limiti parossistici della fiction in cui lo spettatore, prima è bandito poi è invitato a fermare il proprio sgomento alla soglia della consapevolezza dell’acting. Differente è il caso della fotografia di reportage. Lì le azioni o le conseguenze di una guerra sono, al netto di altre considerazioni, sono rappresentate “dal vero” e il dato autoriale, cioè l’intromissione per così dire “artistica” del fotografo è tenuta a bada dall’obiettivo di un racconto veritiero. In entrambi i casi la bulimia delle immagini che ci bersagliano hanno un potere anestetico superabile solo dal dato sensazionalistico che, nelle intenzioni degli autori, opera una riduzione della distanza che si crea nell’osservatore nel rapporto con l’immagine, arginandone la distrazione. Tutto sembra scorrere per non lasciare traccia. Non qui però, non nel caso di Pinelli. Nel suo lavoro è presente una cesura volta a secolarizzare l’azione, a darne forma e contenuto che dal piano puramente estetico emergono nel territorio dell’oggettivo. Il pensiero, guidato da un progetto solido, prende forma autonoma, fuoriesce dalla dimensione allusiva per raccontare una verità: l’uomo, dalla sua apparizione a oggi, è sempre stato simile a se stesso. Il moloch linguistico è distrutto, il dialogo artistico è pronto a dilagare.

Giuseppe Cicozzetti
19 giugno 2019

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