appendice I

Sole splendente eccetera. Rumori da fuori, il mare, le onde. Fastidio della luce oltre le tende – chiudi le tende. Caldo soffocante di metà giornata da clima tropicale, cerchi qualcosa nel frigobar, alcolici, anche, perché no. Perché non bere alcolici anche se è presto, una buona birra per iniziare, fitzzz, non c'è motivo di non farlo. Bevi e il mal di testa aumenta. Sciabordare della risacca e la sabbia ovunque, per terra e nelle infradito. La tesi di Tommi: la sabbia la porta il vento, s'infiltra tra le assi di legno della casa e te la ritrovi sul pavimento. Sorridi. Pazzo Tommi. Un insetto sul pavimento, un grosso scarafaggio. I difetti di vivere in mezzo alla natura, in mezzo a una fottuta spiaggia.
La spiaggia.
Seduto sulla poltroncina di vimini. Bere birra – che altro fare? Mal di testa da ieri sera, perenne, una fitta costante al lato della testa. Tommi aveva un cocktail contro la sbronza, provalo, diceva, vedrai che ti passa tutto. Che cazzo ci hai messo dentro, oh non ti preoccupare, certo che mi preoccupo figlio di puttana, tu bevi e basta e ti dico che passa.
Sorridi. Ti vedi sorridere nello specchio, ti spaventi. È solo un riflesso. Non c'è nessuno. Rumore di gabbiani da qualche parte. Intorno alla casa. Sospiri. Finisci la birra.
Tommi diceva che è meglio non bere la mattina. La cosa migliore, diceva, è cominciare piano, verso il primo pomeriggio al massimo o dopo, andare aumentando con la gradazione e poi cominciare a delirare verso la sera, ecco secondo me la cosa migliore, diceva, e nel frattempo si metteva a ballare, quando facevate i falò in spiaggia, e si muoveva scoordinato e ubriaco e cercava di trascinarti anche se dicevi non ho voglia. Dai, prima che il falò si spenga, sto troppo marcio per accenderne un altro, cuocere la carne. Senti che bella musica! E urlava, anche se non c'era nessuna musica. Estetica del delirio. La scienza della follia. Un lungo climax prima di impazzire, addormentarsi sfatti una sera ed entrare nel regno dei sogni definitivamente, insieme a tutti gli altri, rendere indolore il passaggio, diceva; a quel punto diventava serio, la goliardia era sparita e si capiva il suo vero intento, la sagoma scura sotto la luce della luna sulla riva, solo questo possiamo fare, annunciava, tragico psicopompo, e Lea a volte si metteva a piangere – la dualità dell'alcol che prima ti esalta e poi ti butta giù, sorta di allegoria della dualità umana e della storia dell'uomo, quel folle bipolarismo che alterna le piramidi coi genocidi, Lea piangeva se pensava ai genocidi mentre Gì la consolava e Tommi sogghignava invasato con le onde che gli lambivano le caviglie, non c'è proprio niente da aver paura, niente di cui preoccuparsi, gli occhi come un invasato religioso, siamo al capolinea e questo è fantastico, le mani verso il cielo – basta fare il matto, dicevi, basta con queste farneticazioni da scoppiato ché mi fai girare i coglioni – ti toccava inseguirlo e minacciarlo, ma lo minacciavi per finta, e gli tiravi le bottiglie mancandolo apposta – Lea si riprendeva e si metteva a ridere, maledetto stronzo, diceva, sempre ridendo, e all'improvviso tutto era uno scherzo! Tutti che si rideva come ai vecchi tempi! Risate e falò in spiaggia! Un po' di droga, la portava Eriksen, quel roscio pazzo, magro-tossico, i capelli in una lunga coda e le farneticazioni sul Kali Yuga e le cose indiane – sta ancora con quella spagnola? Adelina? Adelita?

Ridacchi. Poi pensi a quanto sei stupido. Ridacchiare da solo. La solitudine. L'isola in mezzo al niente. L'ultimo sorso di birra ha un saporaccio.
Entra Gì. Che ci fai seduto. Anche lui con la birra in mano. Sbuffi, come dovrei stare, dici. Neanche tu segui il metodo Tommi, eh? Ride, si mette seduto. Sai che una volta l'ho beccato che meditava? Non lo diresti di Tommi; beve un sorso di birra, come per sottolineare. Silenzio. Che mi dici, quindi?, chiede. Alzi le spalle, vai a prendere un'altra birra dal frigobar, che vuoi che ti dica, non mi pare di poterti dire nulla. Lui ride: hai ragione. E Lea? Tu stappi la birra e alzi le spalle, Lea cosa. Lui capisce, si fa serio, niente, dice. Stringi i denti. Questo contegno, questa moderazione, a che scopo? Le occhiaie, guarda le occhiaie: si è svegliato presto per andare a caccia. Non portano più un cazzo quasi, deve andare a caccia lui. Dalla mattina, come un operaio. Tutti i giorni, ore e ore, stoico. Accumulare gli animali morti, conservarli come si può. I doppi turni alla centrale per dare qualcosa un po' a tutti – gli daresti un pugno. Il quadretto felice: il giovane uomo che si fa il mazzo e frequenta la ragazza, e i progetti e la casetta. L'uomo adulto, responsabile, spalle larghe, la faccia seria mentre si carica il raccolto in spalla. Spocchioso figlio di puttana.

Rimanete a bere finché il silenzio non si fa insostenibile. Non osa dire nulla. Un velo di tristezza. Tic toc, l'orologio da parete. Poi di nuovo, tic toc. Vado a pisciare, dici, e sei già ubriaco mentre ti trascini in bagno, e il tuo volto è attraversato da righe rosse e devi far attenzione a manovrare il cazzo – perfino questo diventa difficile. Sorridi. Metti a fuoco. Le linee, la scritta. La camera vuota. Tommi, pazzo di un Tommi, asceta lunare, sacerdote dell'assurdo, chi eri prima? Quel sogghigno, forse a qualche festa, a qualche concerto, quale lavoro, quale vita – ma che importa, giusto? Questa è un'occasione nuova, aveva notato una volta Gì, un'occasione per ripartire, tutti insieme, ricreare un'identità nuova, guarda che bel paesaggio!
Torni e Gì e ancora lì. Non dice un cazzo. Come avesse paura. Tic toc tic toc tic toc tic toc – cazzo! Schegge e sabbia sul pavimento. La bottiglia ha preso in pieno quell'orologio del cazzo, finalmente! Un po' di pace porca troia, dici. Gì urla, sei impazzito, che cazzo fai, guarda le schegge, dobbiamo pulire, ecc, ecc, tutte cazzate, varie cazzate da primo della classe, come si fa adesso senza qualcuno con un po' di fottuto umorismo – Gì pensa che gli ridi in faccia e lo prendi per il culo mentre ti sta urlando qualcosa in faccia, non capisce; Tommi una volta aveva convinto una ragazza – chi era? Dove andò? – che in realtà era un vampiro, e sull'isola ci sono vampiri, aveva raccattato due denti di animale e la ragazza diceva sì figurati, lui diceva cazzo ma non lo sai che Bram Stoker si è ispirato a una malattia reale, ma veramente, certo la porfiria esiste e c'erano dei tizi che ce l'avevano, e adesso c'è ma in versione peggiorata come tutto il resto; tu lì fermo immobile a sembrare serio e dare occasionali assist: sì, vero, ho sentito anch'io, l'ha detto il medico; lei sempre più abboccante, finché non senti il tono lamentoso di Tommi che comincia a incassare la testa tra le spalle, in realtà ho un segreto, e fa per girarsi, ed è importante non ridere troppo presto, e quando poi lei continua a chiedere e lui gira la testa e dice che si vergogna, lo sai, e inizi a ridere, e un attimo dopo lui è in piedi con i denti trattenuti dal labbro superiore che sbucano – quanto ha urlato la poveretta!
Gì continua a blaterare, adesso c'è anche Lea. Le voci lontane, come fuori dalla stanza. Finisce anche la seconda birra, ne serve un'altra. Anzi no, meglio cominciare coi superalcolici. Qualcuno ne vuole?, chiedi. Ti guardano strano. Lea dice, perché no, Gì protesta. Sempre a protestare, ora si mette a pulire per terra, schegge e sabbia dappertutto, ma chi se ne importa. Gì dice a Lea, parlaci tu, io non so che cazzo c'ha, è sclerato. Bella ragazza Lea, dopo tutto. Dopo tutti i problemi di eroina e cose varie, eredità del vecchio mondo – una volta me la sono scopata, aveva raccontato Tommi, ma quella è matta, ha problemi mentali davvero gravi, qualcosa che uno psicologo dovrebbe esaminare, se si potesse ancora.
Racconti di lei che si svegliava urlando in piena notte e girava nuda per l'isola come in catalessi – non era la roba, non era così buona, a meno che non se ne coltivasse per cazzi suoi – ovviamente Gì subito appresso, principe azzurro con armatura e cavallo, anche se i cavalli non ci sono più, io voglio stare con lei e proteggerla e amarla e bla bla, così ecco siparietti da coppietta francamente melensi, e tutto questo ti fa venire ancora più voglia di avere alcol in corpo, e altri veleni vari.
Non aveva mai avuto una casa vera, una famiglia vera. Mai stata sufficientemente a contatto con le stesse persone per arrivare a odiarle, per cui al momento fatidico non ha avuto nulla da perdere – condizione invidiabile, quasi, se non fosse che non lo sapeva, nessuno lo sa, diceva Tommi, finché non è troppo tardi, quindi non cercare di saperlo. Non cercare di sapere cosa, chiedevi, ma lui non rispondeva. Saperlo in generale, sapere perché si è installata a casa di Gì e gli cura il padre sciminuto e gli cucina le cose insieme alla madre, e dovresti venire a trovarci qualche volta, un pranzo tra amici, chiacchiere allegre, droghe sintetiche, vista sul mare, commenti sul tempo, il raccolto, le case, le piante – sputi a terra un grumo di sangue.
Mi dispiace Lea per tutti i traumi e le botte, e forse quando sogni ti ricordi di quando facevi la puttana per vivere e la gente là fuori ti cinghiava se non portavi i soldi giusti o non succhiavi bene, ed è questo che ti sveglia la notte e anestetizzi con l'alcol e le piccole gentilezze, le piccole gentilezze quotidiane però non ti salveranno, perché ormai il tempo è scaduto, mi dispiace per tutto, ma non è colpa mia, è andata così povera mentecatta, non avrai mai un momento di tregua.
Non hai mai detto di aver fatto la puttana, ma è facile capire che l'hai fatto, non c'era altro da fare, non è colpa tua. Quelle occhiate da gatta morta, quel modo di flirtare, sempre appesa al braccio di chi sta cucinando la carne, il maschio alfa del gruppo, e i toccamenti civettuoli, cose che s'imparano in un modo solo, povera puttana psicolabile.
Andata così ormai, pensi mentre esci fuori e il sole scotta sulla pelle, l'acqua del mare è sempre più vicina, vicina e ipnotica e vuoi passarci le dita.
Gì ti rincorre, ti chiede che problemi hai, assertivo, sempre assertivo e condiscente, che schifo. Sul serio, che ti succede. Sorridi, non rispondi. Il mare è bellissimo oggi. Luccichio sfavillante all'orizzonte. Dobbiamo cercare di aiutarci tutti quanti, spiega Gì, per quello che possiamo almeno. È serio mentre lo dice. Rimani fermo, l'acqua arriva alle ginocchia. Calda. Povero Gì. La famiglia nella casetta sul promontorio, il padre quasi andato, l'unico lato positivo eliminato, il fardello della famiglia e i legami umani che persiste fino all'ultimo, c'è qualche morale in questo, di sicuro qualcuno di profondo saprebbe coglierla – tu sai cogliere solo la sfiga di dover fare il padre di famiglia anche in queste situazioni e te lo immagini la notte sveglio con la testa tra le mani come tuo padre quando dovette impegnare i terreni perché il raccolto era andato a puttane – qualcuno come Eriksen probabilmente, o Tommi.
Allora senti l'urlo dalla casetta. Gì ti guarda e sospira, per favore, dice, non finisce la frase.
Stronzo di un Tommi! Proprio nel suo stile. Ridi per quell'ironia malata, l'ironia malata di lasciare una scritta di rossetto e andarsene nella notte, di soppiatto, senza fare rumore, senza godersi la teatralità di quell'uscita di scena. Figlio di troia! Vi voglio bene, vado a fare una nuotata. E poi lo smile – certamente uno smile. La faccina sorridente con una goccia di rosso che cola dall'occhio e sembra una lacrima – Lea disperata e amareggiata con Gì che la insegue fuori casa: lasciami e poi: ho detto lasciami. Se ne va da qualche parte, le passerà, non è il caso di farne un dramma, il dramma già c'è, ed è già compiuto e del resto non è che possa andare lontano.
La gente, diceva Tommi, non ha il senso dell'umorismo adatto alla situazione attuale.

Eriksen seduto, la posizione del loto, sulla scogliera. Accanto a lui la squinzia spagnola. Diciott'anni appena, prende il sole nuda, il corpo di una donna matura. Sorride. Gli occhi scuri. Un piercing al capezzolo. Che ti serve?, chiede Eriksen, gli occhi chiusi, concentrato e superiore. Passavo di qui, dici, volevo un po' di alcolici. Lo raggiungi sulla scogliera e quasi scivoli.
Sei ubriaco? Ti siedi accanto a lui: cazzo te ne frega. Richiude gli occhi. Potresti buttarlo in acqua e nessuno lo salverebbe. Non l'hanno mai visto nuotare. Nessuno ti impedisce di uccidere. La tipa ti sta guardando. Il corpo atletico e la fica liscia. Alcolici non ne ho, dice Eriksen, non m'interessa intossicarmi con quella roba, però posso darti dell'erba. O qualcosa di psicoattivo. Espira. A torso nudo, la faccia all'orizzonte, gli occhi chiusi, calma serafica, i capelli lungo la schiena arrossata e le braccia magre e atletiche sulle ginocchia. No, niente erba, dici.

L'erba, le paranoie. Ricordi di feste studentesche e ritorni a casa notturni e solitari chino a pensare al futuro col terrore di non trovare un impiego – il futuro è arrivato! Ridi.
Ti farebbe bene un po' di meditazione, dice Eriksen. Non dici nulla. Le onde s'infrangono sugli scogli con violenza crescente, s'intravedono dei pesci. Pensi che ci sia qualcosa?

Eriksen apre gli occhi, sbuffa, scocciato, dove, chiede, laggiù? No, lo sai anche tu, laggiù non c'è niente. Niente di niente dopo i fiordi.
La linea dell'orizzonte piatta e calma, qualche nuvola, appena.
I ritorni a casa, quando c'era una casa, un appartamento e una palazzina, il portone, altri studenti in strada che tornavano a casa, sorrisi complici, l'università, il vomito nel cesso e poi a letto.
Eriksen non risponde. Occhi chiusi, schiena dritta, concentrato su chissà cosa. Cazzo, dici, sto tornando sobrio. Ti alzi e fai per andartene. Vuoi scopare un po'?, chiede la ragazza, il piede che ti accarezza il polpaccio. Le tette abbondanti ma sode. La prossima volta, dici.

La sensazione che il tempo non scorra mai. Con Tommi il tempo sembrava non bastare, c'era una chiara e netta progressione – quelle notti a bere e parlare, e parlare fino a svenire e il suo schema per prendere le droghe (aveva un metodo per tutto Tommi) ti davano qualcosa, c'era qualcosa, anche Gì lo sentiva sotto pelle, tutti aspettavano la notte e le storie assurde, forse inventate.
La strada principale, se così si può chiamare. L'asfalto divelto e gli alberi senza controllo, animali morti ecc. Il supermercato. Dentro quasi vuoto, al solito. Francis alla cassa. Le pupille vuote. Cercavo superalcolici. Alza le spalle. Non stacca gli occhi dal fumetto. Avanzi tra gli scaffali vuoti e c'è giusto una bottiglia di whiskey. Chissà da quanto sta lì. È molto che non riforniscono, eh? Francis alza le spalle.
Lea fuori dal supermercato. La faccia dice tutto. Bevi un sorso di whiskey e glielo porgi.
Lo sapevi?

Scuoti la testa. Pochi ricordi della sera precedente. In spiaggia, come al solito. Qualcuno aveva trovato una vecchia chitarra, forse un amico di Eriksen che viveva dall'altra parte dell'isola. Psilocibina fin da subito, poi qualcuno aveva raccontato dei bambini che sniffavano colla. Terribile la colla! Molto meglio un po' di alcol, e funghi tra amici, aveva detto Tommi mentre il tipo intonava una vecchia canzone di mille anni fa, o forse suonava qualcosa di suo – difficile mettere a fuoco le note in mezzo al chiacchiericcio mentre la marea si alzava e poi c'era quel discorso di Tommi da pazzo invasato – ma dopo?
Non lo sapevo, dici. Bevi. Che altro puoi fare. Che altro può fare. Beve anche lei. Tornate in spiaggia e vi sedete. Sole cocente, ma meglio di prima. Il sole è sempre peggio, eh? Lea non dice niente. La bottiglia raggiunge la metà. Tornando incontrate la madre di Gì. Lieve cenno di saluto, l'avrà visto? Povera donna che cammina ingobbita, si spacca la schiena a cacciare qualcosa per la cena, il supermercato desolato e lei vecchia che deve andare per boschi. Quale forza, quali armi. Cartucce vecchie di secoli. Tommi cacciava col machete. Altrimenti non è leale: tutte le creature hanno diritto di esperire la morte, non puoi levargli l'ultimo momento.
Te lo ricordi che Tommi cacciava col machete?, chiedi.

Sdraiati in spiaggia, le onde a pochi metri. Lea scuote la testa. Gli occhi afflitti all'orizzonte, un'altra crepa nel suo quadro. Bella ragazza. Tette piccole e sode. Bevi un altro sorso. Brucia. Non lo sapevo davvero, dici, mo' basta con sta lagna. Lei ferma immobile.
Te la ricordi che civettava con Tommi prima che Gì facesse il primo passo, la sera che era arrivato Eriksen la prima volta, e le stava sempre appiccicato mentre Eriksen raccontava della sua città, chissà che città era, di come bruciava e tutto il resto, storie già sentite, e lei non gli badava minimamente, e invece era rapita da Tommi e cercava di andargli appresso e seguirlo in quelle sue teorie folli – non ti capisco, vorrei che mi spiegassi meglio, non è che tutti abbiamo studiato come te – metteva il broncio e alla fine Tommi era costretto a scusarsi e dire che non c'era nessuna offesa, non importa niente se hai studiato o no, che abbiamo fatto prima in generale, anzi non lo voglio neanche sapere, perché adesso siamo qui e c'è solo questo, e quindi vuoi concedermi un ballo? E allora si riprendeva, un attimo dopo era passato tutto, fine del passato per solenne decreto di Tommi, che infatti rifiutava di raccontare chi era prima – giusto così, annuiva Gì, e Lea non diceva nulla, ma si capiva ch'era d'accordo.

Mi ricordo di una volta che dovevo dare un esame per laurearmi, dici, sembra una vita fa.
Lei muta. Allunghi il braccio per abbracciarla, lo scansa e prova a prendere il whiskey, ti parte la mano. Si tiene la guancia arrossata, gli occhi sconvolti, sei uno stronzo, dice, è colpa tua, è tutta colpa tua. Risponde al colpo e assorbi i pugni al petto, deboli, mentre scoli il whiskey.
Non è colpa mia se Tommi se n'è andato, stupida. Tommi faceva il cazzo che voleva.
Prende il whiskey e te lo strappa di mano e poi continua a colpirti. La tua bottiglia! La spingi a terra e cerchi di salvare gli ultimi sorsi. È caduta, l'alcol è sulla sabbia.
L'ultimo alcol rimasto! Stupida troia!
La colpisci con un calcio, lei si rialza e ti tira una bottigliata in testa, cadi a terra. Ti giri sulla schiena, la guardi, la vista annebbiata, con la mano senti il sangue sulla fronte.
Dai, forza.
Ti tira un paio di calci nelle costole, fitte. Anche se siamo spacciati, dice, non per questo devi fare lo stronzo. Una macchiolina rosa che si allontana. Bel culo comunque.

Respiro doloroso, vista annebbiata, testa pulsante, strisci sul pavimento del bungalow e la porta rimane aperta. L'acqua che entra. Andarsene al più presto. Si sta alzando il livello, di nuovo. Sei coperto di sudore. Arrivi alla poltrona e poi ti tiri su. Neanche un goccio d'alcol. Il tuo riflesso spaventoso nello specchio. La faccia coperta di sangue. Spostarsi. Trovare un altro bungalow vuoto. Portare tutto quanto. Uno senza fottuta sabbia. Su in alto, magari, a picco sul mare.
Gì entra incazzato nero, come cazzo ti sei permesso, urla, non finisce neanche di parlare mentre ti sta mettendo le mani in faccia, è la mia donna!, urla, pugni uno dopo l'altro, sapore di ferro in bocca, qualcosa di duro sulla lingua, la testa rimbomba sempre più, acufene, fitte, dall'inguine in su solo dolore, finché non senti più nulla, vedi il suo riflesso folle e le mani che si alzano, le mani viola finché non te le stringe al collo. Chiudi gli occhi.
Fottiti, dice, è in piedi, calcio alle costole; se vuoi ammazzarti dovrai avere le palle di farlo da solo.
Ridi.
Lea vede il contorno di Gì dalla finestra sporca. Ha le mani sporche di sangue. Non dice nulla.
Lea: dove sei stato?
Gì: mi sono tolto uno sfizio, era tanto che volevo farlo.
Lea: tuo padre ha chiesto di te.
Gì: che voleva?
Lea: non lo so, non me l'ha detto.
Gì: che hai?
Lea: niente.
Gì: non sembra niente.
Lea: che ti devo dire.
Gì: mi devi dire che hai, è questo che ti ho chiesto.
Lea: e che devo avere secondo te?
Gì: pensi a Tommi?
Lea: penso a un sacco di cose.
Gì: beh potresti anche parlarmene. Visto che te l'ho chiesto, che mi interessa. Visto che mi faccio il culo per tutti. Per mio padre, per te. Quel cazzo di raccolto – hai idea di quanti sforzi... lascia perdere.
Lea: ho capito. Sei bravissimo, che ti devo dire.
Gì: ora che cazzo ti prende?
Lea: a che serve?
Gì: a che serve cosa?
Lea: tutto quanto, tutto quello che–
Gì: –a sopravvivere, a cosa deve servire, non ti capisco, non capisco che cazzo ti prende.
Lea: non lo capisco neanch'io. Penso che andrò a fare una passeggiata.
Gì: a fare una passeggiata o a bere?
Lea: se fosse?
Gì: Cristo, anche tu adesso...
Lea: anche io cosa?
Gì: niente, fai come ti pare, sei padrona della tua vita, non so che cazzo dirti, vai a bere, fai quello che vuoi, ammazzati se devi.
Lea: vado.

In piedi. A fatica, quant'è passato? Sei in acqua. Dolore ovunque. La luna, guardala. Fa venir voglia di nuotare. Il mare lava via il sangue. I fiordi. Nuotare laggiù. San Brandano. Fino all'orizzonte – oltre.

Seduta con la testa tra le mani. Sforzarsi di non piangere. È andato via, è meglio così. Meglio che non ci sia più – meglio per lui, meglio per noi. Gì isterico come al solito, ha pestato quell'idiota. È dovuto andare lì e farlo, perché. Ricordi dell'arrivo sull'isola, quanto tempo fa? Impossibile misurare i giorni, ma di certo nell'intervallo di qualche anno. Tutti quanti amici, sembrava una vacanza in una località tropicale. Di quelle che si vedevano sulle riviste. E sulle pubblicità. Tutti amici mentre riemergevi dalla nave naufragata. Come prima cosa ti hanno offerto da bere. Erano morte delle persone, obiettavi. Purtroppo ormai questo è un evento quotidiano, tutto ciò che possiamo fare, aveva detto Tommi, è continuare a vivere qui, per quanto possiamo. Aveva i denti perfetti e i capelli rossi. Gli avevi chiesto se era irlandese, non ricordi la risposta. Un sorriso un po' enigmatico. Sempre a prendere il culo, o a darne l'impressione.
Rumore di un tuffo. Qualcuno ha deciso di farsi una nuotata. Lo vedi all'orizzonte, una macchia nella spuma. Non dovrebbe fregartene, e invece ti viene da piangere. Del gruppo originale non è rimasto quasi nessuno. La nave è ancora lì, distrutta. Sarà lì anche dopo. Adesso è piena di animali e non ci si può andare. Non importa. Ti alzi in piedi, non importa niente. È andato a nuotare, ha fatto la sua scelta, che ci si può fare. Inspiri. Espiri. Il vento caldo sulla faccia. La respirazione è importante. Riprendere la calma. Tutto si aggiusta. Tornare indietro e scusarsi con Gì come prima cosa. Povero Gì, si sforza molto. È un bravo ragazzo, il ragazzo giusto. Lo sarebbe in ogni caso. Scusarsi con lui, e poi abbracciarsi. E dirsi cose romantiche prima di dormire. Una buona dormita prima di un'altra giornata produttiva. Tante cose da fare, sistemare la casa – cade a pezzi, è per via dell'aria di mare che la fa arrugginire. Il raccolto, dare una mano per il raccolto. Ci aspetta una stagione dura, ma non importa. Quello che importa è impegnarsi al massimo, tutto si aggiusta. Ritornare a casa, brindare con gli amici. Ti sforzi di sorridere. Asciughi le lacrime. Respirazione. Tornare a casa, dare una mano. Fare l'amore prima di dormire, e stare un po' abbracciati.
Bisogna pensare a cacciare qualcosa per la cena visto che i rifornimenti non ci sono, pensi mentre torni verso casa. C'è ancora così tanto da fare – ti scappa una risata, forse è il nervosismo.
Non c'è niente da essere nervosi, pensi, poi lo dici ad alta voce, e sembra vero.